Il movimento

In questo capitolo vorrei dare un’idea di come funziona il movimento nel corpo, almeno dal
punto di vista di come possiamo percepirlo (in questa sede non ci interessa il punto di vista medico).
Partiamo dal presupposto che ogni persona “funziona” in maniera propria, individuale. Ad
esempio ogni persona ha un proprio modo di camminare, un proprio modo di girare la testa quando
qualcuno la chiama da dietro, un proprio modo di portare il cucchiaio alla bocca mentre mangia una
minestra. Ma come è possibile che ci siano tante maniere di camminare quante sono le persone al mondo?
Camminare sembra un’azione banale, ma in realtà coinvolge una grande quantità di muscoli,
nervi, tendini, ossa, articolazioni, cartilagini e così via (non si dimentichi peraltro che non si cammina
solo con le gambe: sono coinvolti anche il busto, le braccia e la testa). Il sistema nervoso centrale
controlla ciascun movimento di ciascuna parte del corpo coinvolta, coordinando il grado di tensione e
distensione di ogni muscolo, la rigidità o flessibilità di ogni articolazione e così via. Gli attori di questa
azione apparentemente banale sono così tanti, e ciascuno ha così tante maniere di contribuire al risultato
generale, che la probabilità che due persone utilizzino esattamente la stessa combinazione di movimenti è
ridottissima. Questo vale per ogni movimento del nostro corpo.
Ma come può il sistema nervoso centrale coordinare con tanta nonchalence movimenti così
complessi? Una volta acquisiti con una certa sicurezza, i movimenti del corpo si riassumono in schemi
più o meno rigidi: il bambino inizia a muoversi subito dopo la nascita, ma impiega circa 12 mesi per
imparare (con fatica!) a coordinare il corpo in maniera da stare in piedi, camminare e poi correre. Da quel
momento ogni passo che farà confermerà lo schema acquisito o lo modificherà. Se vivrà in un luogo dove
si cammina senza scarpe, ad esempio in alcune zone dell’Africa, svilupperà una sensibilità verso il suolo
ben diversa dal bambino che non può uscire di casa senza scarpe, come nelle città europee, e sarà in grado
di adattare il proprio modo di camminare a seconda che il suolo sia liscio o ruvido, sabbioso, sassoso,
roccioso, erboso.
Questi schemi diventano sempre più “automatici” (e quindi rigidi) a mano a mano che vengono
messi in pratica: le indossatrici che devono imparare con fatica una maniera di camminare diversa da
quella che attuano spontaneamente sanno quanto sia difficoltoso modificare gli schemi di movimento! Le
persone che hanno la fortuna di acquisire movimenti “efficienti” (cioè che utilizzano in maniera
equilibrata la giusta quantità di energia) avranno meno problemi di schiena, di ginocchia, di anche e così
via rispetto a chi ha elaborato uno schema in cui alcune delle parti coinvolte lavorano troppo ed altre si
impigriscono. Per i primi, camminare sarà un vero toccasana per riequilibrare il corpo quando sentono la
necessità di “sgranchirsi le gambe”. Per gli altri invece camminare è faticoso, e una salutare passeggiata
in montagna diventa una tortura.
Insisto sul fatto che non stiamo parlando di situazioni patologiche: certamente se una persona ha
una gamba più corta dell’altra, oppure ha le articolazioni infiammate o si è rotto un femore, il discorso è
da ricondurre nell’ambito della patologia. Ma le differenze nel movimento rientrano senz’altro
nell’ambito della fisiologia.
Arriviamo finalmente alla distonia focale tipica dei musicisti. I movimenti che i musicisti devono
compiere per ottenere buoni risultati artistici sono, oltre che estremamente complessi, anche
estremamente fini. Sul violino, la differenza fra una nota intonata ed una stonata è di gran lunga inferiore
al millimetro, sulla tromba la differenza di tensione delle labbra fra una nota ed il successivo armonico è
minima.
Se pensiamo alla qualità del suono (il “tocco” del pianista, la “cavata” del violinista) le
differenze non sono nemmeno misurabili. Si provi ad immaginare la quantità di muscoli che deve usare
un flautista per inspirare, immagazzinare l’aria nei polmoni, espellerla in maniera controllata (non è solo
il celeberrimo diaframma a lavorare!), tendere le labbra in modo da concentrare il soffio in un punto più o
meno esteso. E tutto ciò suonando il concerto di Reinecke davanti ad un’orchestra di 60 elementi!
Le innumerevoli ore passate con lo strumento in mano, per studio e per lavoro, rafforzano e
modificano costantemente gli schemi di movimento, fino alle minime sfumature del movimento stesso.
Come ci insegna il maestro di Helfgott nel film “Shine”: per suonare il famoso “Rach 3” (cioè il terzo
concerto di Rachmaninoff) bisogna studiare tanto da non aver più nemmeno bisogno di sapere che note
stiamo suonando per eseguire bene i passaggi difficili. Senza arrivare a tali eccessi, chiunque sa che se
non si conoscono alla perfezione scale ed arpeggi non si riuscirà mai a suonare una sonata di Beethoven:

se dovessimo pensare ad ogni parametro di ogni nota che suoniamo, a mala pena arriveremmo a suonare
le melodie più semplici.
Quando insorge il problema della distonia? Perché non colpisce tutti i bravi musicisti?
Qui entriamo nel campo delle ipotesi, alcune condivise, altre meno. Secondo la mia esperienza (e
di quella delle persone con cui condivido il mio percorso) il problema insorge quando le esigenze
musicali sono così pressanti da dimenticare il principio stesso del suonare uno strumento: lo strumento
non è quello di legno o metallo che tocchiamo con le mani, bensì il nostro corpo. Quando studiamo, non è
per modificare lo strumento (anche se in realtà questo avviene, ma è una meraviglia della musica che
esula dal nostro argomento) ma per modificare la maniera di muovere il nostro corpo con la finalità di
ottenere un risultato sonoro. Siamo preoccupati di sentire un certo suono, la nota intonata, il passaggio
“pulito”, i trillo brillante e regolare, il vibrato ampio e vigoroso, l’accordo corretto, la scala veloce, la
melodia ben legata. Ma non ci preoccupiamo di come ottenerlo: ci sembra che basti volerlo, che ci basti
ripetere il passaggio molte volte per essere sicuri di ritrovarlo al momento opportuno. Ma per qualcuno
questo metodo funziona, e per altri no.
Cosa abbiamo dimenticato in tutto ciò? Molte cose, in verità. Abbiamo dimenticato che per
eseguire un trillo dobbiamo alzare ed abbassare un dito (sul violino) o due alternati (sul pianoforte) a
grande velocità. Questo significa che il dito o le dita coinvolte devono essere molto libere ed elastiche, e
questo non può avvenire se una o più delle parti del corpo che contribuiscono al movimento delle dita
(partendo dal bacino, schiena, collo, spalla, braccio, avambraccio, polso, palmo della mano) sono rigide:
sarebbe come pretendere di mettere in moto un motore totalmente o parzialmente arrugginito e non
lubrificato.
Se una o più parti sono rigide, è perché il sistema nervoso centrale ha interiorizzato il fatto che
per compiere quel determinato movimento (il trillo, nel nostro esempio) bisogna dare a tali parti un certo
grado di rigidità che non è “efficiente”. Anziché aiutare, ostacola.
Il principio della distonia appare quindi banale, almeno da comprendere: abbiamo imparato ad
effettuare i vari movimenti con un dispendio di energia sproporzionato, stressando eccessivamente alcuni
muscoli, e lasciando che altri si atrofizzassero per il non uso. Quando abbiamo imparato, o migliorato, il
nostro trillo, ci siamo occupati solo di battere il dito in modo che ogni nota che lo costituisce fosse chiara,
precisa, intonata, pulita. Non ci siamo preoccupati del fatto che stavamo disequilibrando il lavoro di
squadra delle varie parti del corpo, che abbiamo sostituito il lavoro del muscolo non pronto a muoversi
con tanta velocità con un sovraccarico di lavoro per gli altri muscoli. Non ci siamo resi conto che dopo
ore di lavoro eravamo stanchi, e che in condizioni di stanchezza adattiamo il modo di muoverci caricando
di lavoro i muscoli più forti perché quelli più deboli non ce la fanno più. E così abbiamo proseguito
stringendo i denti, come si suol dire (ma non è solo un modo di dire: spesso lo facciamo senza rendercene
conto!).
Sarebbe bastato organizzare meglio il lavoro, ed avere qualche pausa in più, per lasciare il
corretto tempo di recupero. Ma quando c’è il concerto importante o l’audizione, ci hanno insegnato che
bisogna studiare fino all’ultimo, che non bisogna badare a spese. Ci sarà tempo per riposare dopo.
E invece che suonare meglio, cosa abbiamo fatto? Niente altro che confermare al nostro cervello
che deve privilegiare i muscoli forti, che ci danno sicurezza, e dimenticare gli altri muscoli, che
funzionano solo in condizioni ottimali e sono poco affidabili.
Risultato: i muscoli forti si irrigidiscono ed i muscoli più deboli si atrofizzano (ahimè, quanti
paragoni si potrebbero fare con i risultati disastrosi ottenuti dalle società in cui la differenza fra ricchi e
poveri aumenta anziché equilibrarsi!)