Un nuovo modo di studiare

Premetto che per “nuovo” modo di studiare intendo dire “nuovo” per il musicista che affronta il
percorso di recupero dalla distonia focale.
Non ho alcuna pretesa di aver inventato qualcosa che non esista già. La pedagogia strumentale
già da un secolo ha superato il dogmatismo dei metodi ottocenteschi di apprendimento, sostituendolo con
l’osservazione che ogni persona ha necessità e difficoltà diverse, e che quindi il buon maestro deve saper
interagire con l’allievo più che imporgli delle norme inviolabili.
Personalmente mi associo all’atteggiamento del grande Ivan Galamian (che fu maestro, fra molti
altri grandi violinisti, di Michael Rabin, Itzhak Perlman, Pinchas Zukerman) il quale rinunciò sempre a
scrivere un metodo sulla tecnica violinistica sostenendo che la tecnica si costruisce sull’allievo, e che
quello che vale per uno non vale per un altro (il celebre libro “Principi di tecnica e d’insegnamento del
violino” che porta il suo nome non è affatto un trattato di tecnica, bensì un insieme di testimonianze di
alcuni dei suoi allievi che raccontano la propria esperienza relativamente all’insegnamento del grande
maestro).
Uscire dalla distonia focale, per un musicista, è soprattutto un fatto musicale, prima ancora che
medico. Un musicista è poco interessato a pensare che sta lottando per guarire da una malattia che non è
nemmeno una malattia: quello che vuole è tornare a sentire il suo suono, quello che lo ha accompagnato
durante tutta la propria vita, prima come studente e poi come musicista in carriera.
Questo significa che il momento più importante del recupero (almeno dal punto di vista
emozionale, cioè della motivazione e della sensazione di essere sulla strada giusta) è quello in cui le
sensazioni ed i movimenti acquisiti vengono applicati alla tecnica dello strumento, partendo da brani di
estrema facilità. I musicisti si sentono rinascere quando dalle loro mani torna a sgorgare la magia della
musica, senza più sentire quelle brutte sensazioni fisiche, legate perlopiù a pessime esperienze personali e
professionali.
È un momento molto emozionante, ma è anche un momento molto difficile, perché il limite
imposto da un repertorio così elementare (in molti casi è necessario ripartire da brani che sottoponiamo ai
nostri allievi alle prime armi) diventa presto molto opprimente. I più fortunati riescono a rimanere
concentrati sul fatto che suonare un brano facilissimo senza particolari difficoltà di movimento è non solo
un grande miglioramento, ma è soprattutto una grande conquista. Chi non riesce a sopportare questo
limite tenterà di applicare subito le nuove conquiste al repertorio a lui più caro, con la grande delusione di
vedere solo miglioramenti irrisori rispetto all’impegno profuso fino a quel momento. Ma questa
esperienza di delusione può essere davvero portatrice di grandi miglioramenti, ed aiuterà il musicista ad
entrare in contatto con le sue reali potenzialità, talvolta ben diverse da quelle che la sua testa gli impone
(non necessariamente in peggio: nella mia personale esperienza mi accorgo che la mia tecnica, dopo il
percorso con la distonia, è nettamente migliorata rispetto a prima di sentirne i primi sintomi).
In una maniera che è propria di ciascuno e con l’aiuto del terapeuta (si può fare anche da soli, ma
il carico emotivo è davvero imponente), il musicista che davvero vuole uscire dalla distonia troverà la
maniera di riportare sul proprio strumento quelle sensazioni di piacere che determineranno la sua nuova
maniera di approcciarsi tecnicamente allo strumento stesso, e dal quel momento per lui “studiare”
assumerà un significato tutto diverso.
Qualcuno può essere preso dalla disperazione per non averlo “saputo prima”: non solo avrebbe
evitato il problema della distonia, ma anche i suoi risultati artistici precedenti all’esperienza della distonia
sarebbero stati migliori. Ma, si sa, c’è un tempo per ogni cosa. In fondo i grandi geni della musica sono
quelli per i quali l’approccio “efficace” era un’abilità innata: se Heifetz era in grado di suonare il concerto
di Mendelssohn con l’orchestra all’età di sette anni, possiamo solo ipotizzare che per lui tutto ciò che gli
altri imparano con molta fatica era già “programmato”. Che tradotto significa: il suo cervello era in grado
di coordinare in maniera perfetta (o quasi: qualcosa avrà pur dovuto studiare anche lui!) ogni movimento,
ogni muscolo, ogni tendine, al fine di ottenere il miglior risultato sonoro (ovvero di movimento
complessivo).
Ma cosa significa “nuovo modo di studiare”?
Cerchiamo innanzitutto di capire cosa significa “vecchio” modo di studiare.

Ognuno di noi ha un proprio percorso di studio (e non sto parlando solo degli anni in cui si ha un
maestro, ma anche di tutto il tempo passato sullo strumento durante l’attività professionale), fatto di
maestri validi e maestri mediocri. Da ogni maestro ognuno avrà imparato quello era in grado di imparare:
spesso i musicisti dicono frasi del tipo “da questo maestro ho imparato il vibrato”, “l’altro maestro mi ha
insegnato ad appoggiare il suono”, “ho imparato la respirazione da quest’altro maestro”, oppure “il mio
maestro era fissato con l’intonazione”, “il mio si arrabbiava moltissimo quando acceleravo il ritmo”.
Si sa, ognuno ha le proprie manie. Gli insegnanti sono intransigenti su un aspetto della tecnica e
ne lasciano correre un altro (non si può pretendere tutto e subito da un allievo!). È più che normale. Nella
tecnica violinistica (mi scusino gli altri strumentisti, ma parlo di ciò che conosco più approfonditamente)
ci sono insegnanti “fissati” con la postura, altri con l’intonazione, altri con l’uso dell’arco, altri con il
vibrato.
Non sto dicendo che necessariamente gli insegnanti siano settoriali, ma inevitabilmente saranno
più infastiditi da un difetto che da un altro, riterranno che una certa parte della tecnica sia più essenziale di
un’altra, o semplicemente pensano che prima bisogna insegnare questo, poi quello e poi quell’altro, in
ordine cronologico.
Lo stesso vale poi per il musicista professionista durante il proprio studio privato: ognuno di noi
ha le sue “fisse”, ereditate certamente da qualche insegnante particolarmente influente sulla nostra
personalità. A volte queste “fisse” hanno un impatto tanto forte che non siamo in grado di perdonare a noi
stessi le carenze in un certo ambito tecnico o musicale: ci infastidisce sentire lo stesso difetto ogni volta
che si ripresenta una certa situazione musicale. Proviamo frustrazione, che provoca rabbia, ed iniziamo a
vivere la nostra difficoltà come un nemico da combattere, anziché come un amico da cui imparare. Se non
troviamo una via tecnica per risolvere il problema, la carica psicologica negativa ci porta a cercare di
superare l’ostacolo “a tutti i costi”.
Io credo che qui inizi il tormentato percorso della distonia: il risultato musicale e tecnico diventa
preponderante rispetto a qualunque altra considerazione, e non ci rendiamo conto che stiamo cercando di
schiacciare una zanzara con un cannone da assedio. Aumentiamo la quantità di energia necessaria per
sollecitare i muscoli che non rispondono, e non ci rendiamo conto che, non essendo in grado di sopportare
così tanta tensione, rinunciano del tutto a funzionare, obbligandoci ad utilizzare muscoli più forti. Il
nostro cervello si abitua a sovraccaricare i muscoli forti (che rispondono) e a dimenticare i muscoli più
deboli (che non rispondono).
Il “nuovo” modo di studiare parte dalla considerazione che il nostro strumento ci darà i risultati
sonori desiderati solo se i movimenti del corpo (mani, dita, polso, ma non solo) che facciamo per ottenere
tali risultati sono appropriati. Perché i nostri movimenti siano appropriati devono usare al meglio i mezzi
che abbiamo a disposizione: muscoli, tendini, nervi, tutti coordinati dal sistema nervoso centrale.
Cosa significa questo nel concreto?
Significa che la nostra attenzione deve tenere in grande considerazione il nostro corpo (già
abbiamo spiegato cosa significa nei capitoli sugli esercizi): il risultato musicale è, appunto, un “risultato”,
cioè la conseguenza di una serie di azioni. Queste azioni sono i nostri movimenti.
Una nota stonata sul violino non è un problema, bensì la conseguenza di un problema
(probabilmente una tensione generalizzata dell’insieme schiena-spalla-braccio-polso che ha impedito al
dito di muoversi liberamente andandosi a posare nel punto preciso ove la nota esca intonata, o, per dirla
con Carl Flesch, correggendo tempestivamente la propria posizione).
La qualità scadente del suono di un cornista non è un problema, bensì la conseguenza di un
problema (probabilmente la mancata coordinazione dei muscoli che determinano la respirazione, e/o di
quelli che danno alle labbra la possibilità di vibrare, passando per varie rigidità a carico delle spalle, della
gola, della mascella e così via).
Un passaggio di agilità “sporco” sul pianoforte non è un problema, bensì la conseguenza di un
problema (probabilmente legato a squilibri fra muscoli grandi e muscoli piccoli, articolazioni bloccate,
polso rigido, spalle alzate, collo teso, a loro volta provocati da sensazioni falsate e scarso contatto con il
proprio corpo).
Per suonare bene il violoncello bisogna avere una buona intonazione, una buona postura, un buon
uso dell’arco, un buon vibrato, un buon ritmo, una buona agilità. Se uno solo di questi aspetti è carente, il
violoncellista sarà mediocre. Ovviamente ogni strumento richiede una analoga serie di caratteristiche da
possedere per poterlo suonare al meglio.
Tutte queste abilità hanno un punto in comune: il movimento del corpo. Ad ogni carenza tecnica

e musicale corrisponde una serie di movimenti del corpo non bene acquisiti, forzati, non controllati,
bloccati.
In termini di pratica quotidiana, “nuova” maniera di studiare significa affrontare il lavoro
musicale partendo dal proprio corpo.
Alcuni punti essenziali possono essere schematizzati così:
– riscaldamento. Possono aiutare gli esercizi di stretching prima di mettersi a suonare, e possibilmente
anche qualche esercizio di respirazione profonda, che serve per risvegliare il corpo. Come abbiamo già
visto, è importante percepire il respiro in tutto il corpo. Il riscaldamento riguarda però i primi minuti di
esercitazione sullo strumento: il brano o l’esercizio con cui si inizia deve essere sufficientemente facile e
conosciuto da permettere al cervello di non preoccuparsi del contenuto musicale, ma solo della
coordinazione muscolare. Mi sento di darlo quasi come una regola: i primi minuti (quanti, naturalmente,
dipende dalla singola persona) devono essere dedicati quasi esclusivamente alla percezione dei movimenti
e delle tensioni che essi possono provocare. Se si rilevano tensioni è necessario scioglierle attraverso gli
esercizi già spiegati.
Quando ci si sente pronti (davvero! Non quando ci sembra che ragionevolmente dovremmo esserlo!) si
può passare allo studio vero e proprio.
– studio. È il momento più delicato: le vecchie abitudini di movimento sono dietro l’angolo, pronte a
distruggere tutto il lavoro fatto con gli esercizi, la respirazione, il riscaldamento. Dobbiamo essere spietati
nella scelta del repertorio che affrontiamo e soprattutto nella maniera di affrontarlo. Non è una vergogna
rimandare la preparazione di un brano ad un momento in cui ci sentiamo più pronti (ancora una volta
dobbiamo imparare dai cantanti!).
Lo scopo dello studio di un brano è soprattutto la capacità di affrontarlo nella maniera giusta, cioè
utilizzando la giusta energia, mantenendo costante il contatto con il corpo, sentendo costantemente le
tensioni e sciogliendole, trovando le diteggiature che ci permettono di stare più rilassati (attenzione: non
sto dicendo di fissarle indelebilmente! Meglio di tutto è non fissarle affatto, lasciando che le mani
sviluppino la capacità di inventarne costantemente di nuove), sentendo il contatto fisico fra le dita e lo
strumento, facendo attenzione a che tutto il corpo partecipi all’esecuzione, e che il lavoro delle mani non
metta in tensione spalle, braccia, polsi, bacino, gambe, gola e così via.
Il risultato sarà l’esecuzione del brano. Attenzione: ho detto il risultato, non lo scopo! Molti brani
vengono giustamente affrontati per imparare qualcosa, più che per eseguirli perfettamente in un concerto
o registrazione.
Può sembrare un discorso un po’ da “terapeuta”, ma è esperienza mia personale di musicista
(continuo a sentirmi più musicista che terapeuta!): le difficoltà tecniche si superano migliorando il
movimento, non angosciandosi per le note sbagliate. I trilli si studiano rilassando braccio e polso, non
cercando di muovere le dita più velocemente. I grandi salti sul pianoforte sono possibili solo se lo
spostamento di mano, polso e braccio è fluido, e se il braccio “cade” senza resistenza. Le chiavi della
parte inferiore del clarinetto possono essere messe in azione con agilità solo se il mignolo della mano
destra dispone di tutta la libertà di movimento possibile.
Questo modo di studiare, basato sulla percezione del movimento e delle proprie tensioni,
all’inizio è molto stancante. Può essere addirittura sconcertante rendersi conto di quanta stanchezza si
accumuli durante lo studio. Si richiede una concentrazione (lo ripeto ancora: da non confondere con la
tensione!) mai sperimentata prima, e la nostra resistenza si riduce brutalmente. Già dopo pochi minuti è
possibile sentire che non si può più continuare.
Ma… niente paura! È solo il sintomo del fatto che abbiamo finalmente iniziato ad occuparci del
nostro corpo. Iniziato, appunto, e quindi non siamo abituati a porre tanta attenzione a così tante sensazioni
fisiche. E poi questo significa che finalmente abbiamo imparato a sentire la fatica! Ed è una delle
conquiste più grandi: prima eravamo così impegnati a suonare grappoli di note senza sbagliarne una da
non accorgerci che stavamo utilizzando i nostri muscoli come delle macchine da guerra. Ora ci
accorgiamo che ad ogni suono corrisponde una serie enorme di informazioni da dare e di sensazioni da
ricevere (immaginatevi di tenere sotto controllo il contatore di MegaByte in entrata ed in uscita durante
una chiacchierata su Skype!). Ogni suono è un miracolo di tecnica, il risultato di una sapienza e maestria
di movimento che abbiamo impiegato anni ed anni ad acquisire, danneggiare, correggere, acquisire di
nuovo, ritrovare e così via. Voglio ripeterlo ancora: ogni suono è un “risultato”!
Con lo studio poi tutto migliora: aumenta la resistenza, i muscoli diventano più reattivi, lo sforzo

profuso per percepire le sensazioni diminuisce. Lentamente alcuni movimenti diventano automatici (ciò è
necessario, ma molto pericoloso: tenete sempre d’occhio i movimenti automatizzati, che hanno tendenza a
diventare meccanici e a perdere il contatto con il corpo).
E qui, sono certo, il musicista si chiederà: ma quanto si deve studiare? Oppure: quanto ci è
concesso studiare?
Risposta: il più possibile! Ma con molta attenzione alla parola “possibile”. Il vostro corpo vi dirà,
di giorno in giorno, di volta in volta, fino dove potete spingervi. Ascoltatelo!
Non è necessario fermarsi ai primi segnali di stanchezza, ma qualunque musicista può sentire
facilmente quando la sua concentrazione non è più al 100%. E lì bisogna arrendersi: può bastare una
breve pausa, ma continuare a studiare significherebbe tornare indietro.
Un segnale importante per capire il punto oltre il quale è meglio non andare è la ricomparsa delle
vecchie abitudini. Stando molto attenti è possibile captare il “ritorno” delle vecchie abitudini di
movimento ancora prima che si manifestino visibilmente.
A questo punto, vedo l’orrore diffondersi sulla faccia dei musicisti abituati a preparare il
concerto in pochi giorni, grazie alla propria prodigiosa prima vista e ad una tecnica sicura che (prima
dell’esperienza della distonia!) non li aveva mai abbandonati.
Sorge spontanea l’osservazione: ma allora per preparare un concerto ci vuole una vita!
Risposta: sì, nel vero senso della parola! Un concerto, un brano, un suono sono il risultato (avrete
notato una certa insistenza su questa parola) di una vita di studio. È un dato di fatto. Se io mi mettessi a
studiare il flauto traverso, probabilmente impiegherei decenni prima di arrivare ad avere un suono
comparabile a quello di Rampal, anche su una singola nota. Anzi, con ogni probabilità non ci arriverei
proprio.
L’esecuzione di un brano in un concerto diventa, con la “nuova” maniera di studiare, il risultato
(di nuovo!) di una serie di abilità acquisite, finalizzate a migliorare la propria tecnica individuale, ed
applicate al brano in questione.
Mi vergogno un po’ ad esprimere un concetto tanto banale ed “antiquato”, già sviscerato dal
pianista Alfred Cortot all’inizio del Novecento nelle sue meravigliose edizioni da studio del repertorio
chopiniano, ma sento la necessità di farlo poiché i musicisti se ne dimenticano spesso: l’esecuzione del
singolo brano diventa spesso prioritaria sul miglioramento tecnico generale.