Un po’ di psicologia

È opinione piuttosto diffusa che la distonia non sia un disturbo di origine psicosomatica, o
almeno non nel senso proprio del termine, non è cioè la manifestazione fisica di un disagio puramente
psicologico.
Condivido questa opinione: durante i miei quattro anni di terapia avevo semmai l’impressione
che fosse la mia vita psicologica ad essere negativamente influenzata dalla distonia focale, più che il
contrario. Di questo vorrei parlare in questo capitolo.

L’impatto emotivo della distonia focale sulla vita di un musicista può essere devastante, e
quando egli si rende conto di avere un problema serio da affrontare è probabile che si trovi già in uno
stato d’animo di totale prostrazione, la quale renderà molto più pesante di quanto potrebbe essere il
percorso di recupero. In questo senso, quindi, possiamo dire che l’aspetto psicologico probabilmente non
è la causa della distonia focale, ma certamente ha una grande influenza sul percorso di recupero, e vale la
pena di proporre alcune osservazioni.
La prima, e più importante di tutte, è che la distonia si può gestire, migliorando nettamente fino
ad uscirne.

La seconda è che dipende da noi, dove per “noi” intendo l’insieme di musicista, terapeuta, amici,
famigliari, colleghi e così via: il recupero dalla distonia non coinvolge solo il corpo, come abbiamo visto,
ma tutti gli aspetti della nostra esistenza, di cui i pensieri, i sentimenti e le emozioni sono una parte
importantissima.
Ma vediamo in dettaglio.
Ognuno di noi ha il proprio modo di affrontare le difficoltà della vita e le proprie aspettative, al
quale è abituato. La distonia, come l’energia del maestro di tai-chi, colpisce più duramente quanto più
intensamente il musicista ha desiderato arrivare ad alti livelli: coloro che con più determinazione e
disciplina si sono sottoposti all’estenuante studio della tecnica, tanto più vengono abbattuti da quella che
appare come una tegola sulla testa.
È inevitabile sentirsi maltrattati dalla vita e pensare: “ma come? Io che mi sono impegnato così
tanto per raggiungere il mio obbiettivo artistico, dovevo meritarmi che uno stupido dito che non si alza mi
tagliasse ogni possibilità di arrivare al risultato?”.
Lo sconforto aumenta quando i primi esami medici rivelano che “non c’è nulla che non vada”:
l’elettromiografia mostra che i nervi conducono bene gli impulsi, l’ecografia mostra che i muscoli non
presentano lesioni, la radiografia non evidenzia anomalie a livello strutturale, cioè l’apparato scheletrico è
del tutto normale.
Di solito il medico generalista o specialista alza le spalle, dicendo che la persona sta bene, che
non c’è motivo di preoccuparsi, e, a volte con un sorriso che rimarrà impresso negativamente nella mente
della persona che non riesce a suonare, che in fondo non è una gran tragedia un dito che non si alza.
A me è stato detto dal neurologo che avrei fatto meglio ad appendere il violino al chiodo e a
pensare ad un lavoro alternativo.
A questo punto possono sorgere una miriade di emozioni, a seconda della tendenza psicologica
del musicista interessato.
Molto comune e ben comprensibile è la rabbia; rabbia contro il medico che ci considera quasi un
ipocondriaco con delle turbe mentali e che gli fa perdere tempo quando ci sono persone che stanno molto
peggio di noi; rabbia contro l’ingiustizia della vita, che ci mette davanti un muro che quasi tutti
considerano invalicabile e che non ci meritiamo; rabbia per essere così deboli da farci mettere in
ginocchio da una malattia che nemmeno si riesce a rilevare con gli esami medici; rabbia contro quel dito
che ci sta rovinando la vita e che sembra ribellarsi alla ferrea disciplina che gli abbiamo imposto fino ad

ora.
Altro sentimento molto comprensibile è quello di impotenza: l’impossibilità di imporre la nostra
volontà ad una parte di noi stessi (dito, mano o altro) ci fa sentire inermi: ci siamo impegnati a fondo
durante i migliori anni del nostro studio sognando i più alti successi, e poi ci siamo resi conto che la realtà
era diversa, e che dovevamo adattarci.
Abbiamo ridimensionato le nostre ambizioni: pensavamo di diventare grandi solisti, e ci siamo
adattati a fare il pianista accompagnatore, scoprendo che in fondo è un lavoro bellissimo.
Abbiamo imparato tutte quelle cose che fanno di un pianista un pianista accompagnatore (che è
ben diverso, ma non certo più semplice che fare il solista!), abbiamo approfondito la nostra cultura
musicale, la storia della musica, l’armonia, i solfeggio, la notazione della musica contemporanea, il basso
continuo.
Ci siamo dotati di tutti i mezzi possibili ed immaginabili per affrontare una carriera musicale che
si è rivelata infinitamente più complessa di quanto ci immaginassimo quando iniziavamo ad eseguire le
scale ad una certa velocità.
Abbiamo conosciuto le persone “giuste”, abbiamo avuto la fortuna di introdurci in un certo
ambiente che ci permette di avere un lavoro, più o meno di soddisfazione, e continuiamo ad avere la
speranza di poter salire, di affrontare l’audizione per un posto di maggior prestigio.
È ben lontana da noi la consapevolezza che tutto ciò è basato su un equilibrio molto fragile, fatto
di movimenti e coordinazione di muscoli, tendini, nervi e così via. Diamo totalmente per scontato che se
oggi possiamo suonare il concerto per violino di Hindemith, con ulteriore impegno potremo suonare
quello di Shostakovitch o di Prokofiev.
Abbiamo imparato ad impegnarci a fondo, a sfidare la fatica, a gestire la tensione di presentarsi
in pubblico, abbiamo capito qual è il livello da raggiungere per affrontare un’audizione, abbiamo
imparato, imparato, imparato…
Quando il nostro dito inizia a ribellarsi, lo affrontiamo con tutto il carico delle nostre
acquisizioni, con la certezza che non si tratti di niente altro che di un dettaglio che ci è sfuggito.
Gradualmente ci rendiamo conto che i nostri sforzi sono inutili. A qualcuno sorge anche il
sospetto che la cosa peggiori, immaginandosi le più funeste conseguenze.
Il nostro edificio di aspettative (tutt’altro che immotivate) si sgretola al primo concerto di una
certa importanza in cui il nostro dito “ribelle” decide di far valere le proprie ragioni con uno sciopero non
programmato.
Fin qui la storia è abbastanza comune a tutti i musicisti che soffrono di distonia.
Da qui in poi iniziano le storie individuali, che sono determinate dalle proprie convinzioni, dalla
propria capacità di reagire alle avversità, dalla fede o meno nella medicina tradizionale o in quelle
alternative, dalla propria capacità di analisi della situazione, dalla propria disponibilità a rimettersi in
gioco e a reinventarsi.
In una parola, il dito che non si alza condiziona gli aspetti più profondi dell’esistenza e ci obbliga
ad ampliare il nostro sguardo: prima il problema erano le scale a ottave, i trilli doppi, la respirazione
continua, i passaggi di trentaduesimi, le diteggiature storiche; ora quei problemi ci sembrano cose da
marziani.
Ci angoscia pensare che i colleghi possano venire a conoscenza della nostra difficoltà,
accampiamo scuse per rifiutare offerte di concerti ai quali parteciperemmo più che volentieri per non
rischiare di essere “scoperti”, cerchiamo di tenere aperte le porte che abbiamo aperto con così grande
fatica, sperando in un recupero miracoloso e rapido, anche se dentro di noi sappiamo che non sarà così.
Ci sentiamo male quando il nostro allievo più scadente suona con una certa facilità quel
particolare passaggio che per noi è diventato un incubo (spesso si tratta di poche note).
Ci viene da piangere quando vediamo il nostro strumento, fermo da tempo, e ci viene la

tentazione di provare a suonare perché… chissà che qualcosa non sia cambiato! E scopriamo che non è
così.
Ci sentiamo in colpa perché ci sentiamo così male, nonostante si tratti di un problema con il
quale la vicina che soffre di artrosi farebbe volentieri il cambio. Scopriamo che intorno a noi c’è un
mondo di sofferenza (malattie, vecchiaia, guerre, ingiustizie) e, anziché sentirci fortunati di non dover
patire quelle sofferenze disumane, ci sentiamo male perché un dito non si alza al momento giusto.
E ci sentiamo male perché non siamo in grado di sentirci fortunati. Ci sembra che la gente ci
guardi come bambini viziati che si lamentano per una malattia che non è nemmeno una malattia.
Questi sentimenti, molto violenti, colpiscono molti musicisti che devono rinunciare o almeno
mettere in stand-by la propria carriera. Poi ognuno aggiunge un ulteriore carico di sofferenze, legato al
proprio vissuto musicale ed extra-musicale.
Ci sono poi i tentativi falliti: le terapie che sembrano funzionare e che si rivelano del tutto o
parzialmente inutili lasciano un ulteriore segno di sofferenza, creando diffidenza e pessimismo.
Non serve la laurea in psicologia per capire che affrontare un percorso di recupero con un tale
carico di sofferenza non sia esattamente la condizione ideale per risolvere un problema legato alla
coordinazione, alla concentrazione, alle percezioni e così via.
Ma questo è ciò che abbiamo.
Per chi riesce a non lasciarsi opprimere, c’è almeno la consapevolezza che se siamo stati in grado
di sopportare tanta sofferenza, possiamo certamente trovare la forza e la determinazione per ricominciare
a lottare.
Ribadisco ciò che ho detto all’inizio: non credo che l’origine della distonia sia da cercare nella
psicologia. Ma sono certo che la psicologia sia uno strumento indispensabile per percorrere il difficoltoso
cammino di recupero. Non sto parlando necessariamente di una psicoterapia, ma della disposizione
d’animo con la quale lo affrontiamo.
Il percorso di recupero richiede tutte le nostre facoltà, fisiche e mentali.
Gli strumenti principali sono:
– una grande determinazione
– un pazienza infinita
– la disponibilità a non voler misurare in maniera matematica i miglioramenti (probabilmente dopo due
mesi non sarò migliorato del “doppio” rispetto a quanto fossi migliorato in un mese)
– moltissima concentrazione
– grande disciplina
– un solido ottimismo
– la disponibilità a valutare i miglioramenti rispetto al punto di partenza e non a quello di arrivo (che
appare sempre infinitamente lontano).
Recentemente va molto di moda il termine “resilienza”, che riassume abbastanza bene l’insieme
di queste capacità.
Altro strumento indispensabile, ancorché difficile da raggiungere, è la capacità di discernimento.
È indispensabile distinguere:
– la disciplina (utile) dalla rigidità (dannosa)
– il rilassamento (importantissimo) dalla perdita di contatto con il proprio corpo (dannosa)
– l’ottimismo (indispensabile) dalle insensate illusioni (pessime)
– la concentrazione (necessaria) dalla tensione (da evitare).
La buona notizia è che tutte queste abilità si possono imparare e sviluppare, e sono parte
integrante del programma di recupero.